Intervista ad Alfredo Zucchi: dialogo tra Voci su “La bomba voyeur”

di Clelia Attanasio 

Incontro Alfredo Zucchi il 3 maggio a Napoli. È un pomeriggio non particolarmente caldo e annuncia pioggia. Arrivo cinque minuti in anticipo alla fermata della metropolitana dove ci eravamo dati appuntamento: ho sempre ritrovato una certa pace nel poter aspettare chi devo incontrare, senza l’affanno della corsa, fugando il timore che gli altri siano già lì. Mi rende nervosa incontrarlo perché fino a quel momento le nostre comunicazioni si erano sempre limitate al piano multimediale, con messaggi ed email. Incontrare una persona che hai conosciuto in qualche modo ma che non hai mai visto di persona rende sempre tutto molto asincronico; sai chi stai per incontrare, ma nei fatti non ne hai idea. Nonostante questo ero emozionata perché avevo letto il suo romanzo La bomba voyeur, lo avevo studiato nei minimi dettagli; ero ansiosa di potergli porre dal vivo tutte quelle domande che mi erano frullate per la testa sin dalla prima lettura del testo, che ho adorato e mi aveva letteralmente lasciata senza fiato.

Con lui c’era Antonio Russo De Vivo, co-direttore di CrapulaClub insieme ad Alfredo, altro contributo eccezionale all’intervista, senza il quale molte discussioni non avrei avuto l’idea di introdurre.

Li incontro in zona Università e ci dirigiamo verso un bar lì vicino, ci sediamo fuori e io accendo il registratore del mio telefono; interiormente prego che funzioni, considerando che qualche volta l’applicazione del registratore mi ha giocato brutti scherzi all’università. Soprattutto, spero in cuor mio che il telefono non si scarichi sul più bello, lasciandomi con un nulla di fatto e la delusione nelle vene. Per fortuna questa ansia non traspare, anzi credo di aver trasmesso una certa sicurezza del mezzo telematico (dovevo dissimulare, pur non avendo mai avuto un registratore in vita mia), e il mio telefono è riuscito a supportarmi in tutto. Dopo un momentaneo imbarazzo, mi rendo conto che l’ambiente che si è creato è decisamente amichevole e gioviale; l’intervista comincia a filare liscia sin da subito. Questa è l’intervista che è venuta fuori in quasi tre ore di conversazione, all’interno delle quali siamo riusciti a sconfinare gli argomenti previsti ben più d’una volta. Date le premesse poste dal romanzo di cui si sarebbe discusso, non potevo chiedere – e sperare – in uno sconfinamento migliore.

 

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CA: Il romanzo è strutturato come una lunga dissertazione filosofica. Mi spiego: esiste la trama, ma esiste anche una dimensione filosofica che viene esplicitata lungo tutto il romanzo. Mi chiedo: quale delle due dimensioni è l’espediente per comunicare l’altra?

AZ:  Secondo me c’è un movimento netto, che va da “meno speculazione filosofica” a “sempre più speculazione”. Il romanzo nasce con un’idea di trama, che è quella di un ragazzo che viene rapito e – invece di chiedersi come avrebbe fatto Pasolini «Chi è stato?», «Perché?», «Datemi le prove» – comincia a godere di questa reclusione. Una volta che questo ribaltamento è avvenuto le cose si aprono e la speculazione vera e propria nasce quando le due voci narranti si uniscono. C’è una parte dell’ultimo capitolo della voce in prima persona, in cui la voce narrante assume una serie di lemmi che vengono raccontati dall’altra voce narrante; inoltre, a un certo punto la voce narrante in terza persona fa una specie di dichiarazione programmatica che suona come: «da questo momento in poi, è un’altra cosa».

CA: A proposito della voce narrante: prima dell’Appendice, la voce dice di aver creato un “laboratorio”. Questa voce ha preso un’indipendenza da te o hai conservato una sorta di identificazione con essa?

AZ: Io non c’entro niente lì dentro. Per rispondere sulla questione della Voce, questa a un certo punto si alza e impenna ma può farlo solo quando ormai le due storie sono entrate in collisione. Quando dichiara che un finale non è possibile, si entra nella dimensione in cui ciò che misura è anche ciò che viene misurato; una sorta di riproduzione del “Circolo Ermeneutico”, insomma.

CA: Perché hai scelto di usare solo nomi in codice, un po’ come nell’ambiente mafioso?

AZ: Col senno di poi, considerando che è un testo che ha avuto una lunga gestazione, questa è uno degli aspetti del romanzo che mi sta causando più problemi. Non lo accetto più. Non farei più una cosa del genere. Ma l’elemento allegorico, l’elemento di semantizzazione grazie al quale non ci sono più nomi propri ma solo attributi, tutto ciò permette più facilmente di superare certi limiti che il realismo letterario di solito ti impone. Hai presente? Il procedimento dadaista è quello del siluramento dell’idea. Utilizzando dei nomi che si riferiscono a delle funzioni, questo procedimento viene fuori in modo più naturale; è come se fosse un veicolo per far sì che la voce si distacchi dalla realtà anagrafica. In più, utilizzare questa nomenclatura semantizzante è un altro modo per prendere contatto con la storia reale e deformarla.

CA: In effetti questo mi fa venire in mente un’altra domanda. Se il dato anagrafico non conta, perché scegliere, per un asse del romanzo, un contesto storico così determinato come quello degli anni ’90?

AZ: Il tema principale del romanzo è la relazione dell’uomo col potere, con la violenza, il sopruso, l’inganno (e quindi tutte le declinazioni del potere); gli anni ’90, non solo in Italia ma nel mondo, rappresentano la fine di un paradigma, quello della Guerra Fredda. È un momento in cui la relazione dell’uomo col potere si rimette in gioco, si aprono nuove strade ed è quello il momento in cui il nuovo monstrum può venir fuori.

ARDV: Siccome si tratta di una societas, la questione dei nomi ha senso anche in riferimento a questo: non ci si chiama per nome in un contesto che vuole rimanere segreto.

CA: In effetti il primo collegamento che mi era venuto in mente era proprio quello con le mafie.

AZ: È chiaro, ed è così chiaro che non ci avevo ragionato. Ma, se ci pensate, questo procedimento dei nomi si applica anche alla seconda storia del romanzo: nessuno dei personaggi ha un nome vero e proprio. Paradossalmente, sono due tipi di comunità segrete. Ma questo è solo il primo strato, perché se ci fosse solo questa motivazione allora i personaggi potrebbero avere sia il soprannome che il nome anagrafico, ma questo non viene fuori. Ridurre tutto solo a questi soprannomi è un’indicazione programmatica di dove voglio portare la storia.

ARDV: Ciò rende anche oggetto i personaggi. Come il fatto che un tuo punto di ispirazione siano Sade e il Salò di Pasolini, dove i personaggi sono rinchiusi in uno spazio chiuso e lì tutti sono oggetti alla mercé del potere. Chi è oggetto non ha nome.

AZ: Per me era così evidente che non ci ho pensato. Contenuto e contenitore, in questa storia, non sono svincolati. Il rappresentare questo luogo chiuso, segreto, con delle regole in codice, non è aleatorio, ma è legato a un’idea di rappresentazione, di dove voler portare questa storia.

CA: È una sorta di manifesto programmatico ancor prima che la storia abbia inizio, in buona sostanza.

AZ: Sì.

CA: Passando ad altro, tu parli del potere in moltissime forme, è – credo – il nucleo fondante dell’intera trama. Ma, considerando che un finale non è possibile, mi chiedo se almeno tu sei riuscito a capire cosa sia il potere.

AZ: (fa una pausa, ride) Credo di sì. Da un punto di vista esperienziale, scrivere un testo del genere ti mette in relazione più intima con delle idee, che sono anche delle contraddizioni e dei tabù. Quindi sì, ma tu mi hai chiesto solo se ho capito cos’è il potere, non cosa sia.

CA: (ride) Era implicito.

AZ: (ride) È difficile rispondere.

ARDV: Credo ci siano due tipi di poteri: il potere ufficiale, politico, storico. E poi il potere che viene esercitato dagli individui, all’interno della parte non-politica del romanzo, quella del puer. Un potere legato alla forza, espressione di potenza individuale.

AZ: Sì! Clelia, chiedimelo di nuovo: «Che cos’è il potere»?

CA: Che cos’è il potere?

AZ: Il potere è ciò che riguarda le relazioni. C’è un capitolo del romanzo intitolato: “Fabbricare i fatti”. Questo è il potere. Bisogna portare il discorso dalla politica alle strutture fondamentali del romanzo.

ARDV: Qui si potrebbe citare, come esempio, L’affaire Moro di Sciascia. Clelia, tu l’hai letto?

CA: No, devo recuperare.

ARDV: È un capolavoro, perché la base da cui parte Sciascia è che l’affare Moro è un romanzo, non una storia di cronaca. Prima esiste il racconto dell’affare Moro e poi il fatto stesso, non viceversa. I fatti, appunto, vengono fabbricati.

AZ: In questo libro, Sciascia utilizza una serie di esempi. Cita un racconto di Borges, ma in particolare parla di un testo che Miguel de Unamuno scrive sul Don Chisciotte di Cervantes, e su come – da quel testo in poi – nessuno abbia potuto leggere il Don Chisciotte senza pensare al testo di Unamuno. Qui si tratta di un’inversione di causa e conseguenza, e ciò ha a che vedere con l’interpretazione che l’uomo dà delle cose. Al livello fondamentale, se i fatti non sono neutri, l’unica cosa che uno può fare è raccontarli. Quando li racconta entra in una dimensione di ambiguità e di finzione. E questo è un livello.

Ora, il libro si apre con un’interpolazione di Nietzsche che dice: «Solo ciò che non ha storia si può definire». Si parte dall’idea che i fatti non sono oggettivi ma sono oggetto di finzione, quindi raccontabili. Sino ad arrivare a eliminare, in qualche modo, la storia stessa. Ci si trova in una dimensione fondamentale in cui non esiste più la neutralità: il fatto stesso di aprire gli occhi, di pronunciare una parola, è un atto politico che vuol dare direzione alle cose.

CA: Questo modo di vedere il politico mi ricorda in qualche misura ciò che diceva Schmitt ne Il Concetto di Politico. In questo testo, per politico si intende la scelta di un nemico: un elemento, un popolo, un dato che non ci rende più possibile vivere alla stessa maniera. Il politico sta nell’indicare questo stato di cose, dichiararlo nemico, scegliere di farlo diventare nemico.

AZ: Questa è un’idea che mi parla, sono effettivamente d’accordo. Ma, come dicevamo prima quando parlavamo della speculazione filosofica nel testo, una delle idee del romanzo era di cominciare con una rappresentazione concreta del potere e, alla fine, riportarla in un calderone essenziale di concetti. Se tu mi presenti un’idea come quella di Schmitt mi viene in mente Eraclito. Un contesto in cui l’agone è tutto, e questo si ricollega – in modo essenziale – alla teoria dell’evoluzione. Il pensiero della lotta, in questo calderone, è fondamentale perché esclude la coscienza. L’evoluzione si compie per mezzo di agenti che non sanno ciò che fanno, che sono fuori dall’idea umana di coscienza, di fine, di scopo.

CA: Il romanzo ha avuto una gestazione lunghissima. Quanto ha influito tutto questo tempo? Avresti mai potuto scrivere un romanzo simile, per esempio, in sei mesi?

AZ: Non sarebbe mai stata la stessa cosa. Questo romanzo ha un’idea precisa di struttura. La cosa che per me è stata sempre importante era conservare l’idea di una fuga finale, una fuga dalla storia stessa. Se davvero stiamo facendo letteratura, allora l’idea della chiusa o non esiste, o è imprecisa, o è una drastica riduzione. Ho avuto molti problemi a configurare la voce narrante in terza persona e quella  in prima persona. Ho passato due anni a riscrivere gli stessi capitoli della voce in terza, senza capire dove stessi andando. Poi ho avuto l’opportunità di passare tre settimane nelle quali ho potuto concentrarmi solo su questo, e allora ho scritto il capitolo “Gli Epigoni”, dove avviene una deformazione della rappresentazione. Lì ho capito che stavo riuscendo a superare certi limiti del realismo letterario. Così ho potuto fare un passo indietro e adattare questa visione a quello che avevo già scritto. CA: Quindi, se tu avessi scritto questo libro in sei mesi, probabilmente alla domanda: «È la storia funzionale alla Filosofia?» mi avresti risposto semplicemente «Sì».

AZ: Esattamente.

CA: Questa domanda, invece, riguarda il romanzo in senso lato: quando hai cominciato a scrivere il romanzo eri ancora in Italia?

AZ: No, ero già a Barcellona.

CA: Va bene. Quanto ha influito il tuo non essere a Napoli?

AZ: Quando sono andato via dall’Italia, non mi mancava l’Italia, mi mancava Napoli. Ma ho sempre vissuto male il peso della tradizione napoletana. La questione oleografica, le tradizioni.

CA: Perché?

AZ: Ti limita, è pesante. Io non sono cresciuto così, io ho avuto il primo contatto con la letteratura con la poesia francese.

Nel capitolo “Gli Epigoni” c’è tutta una discussione su cosa voglia dire abitare in una città millenaria, ed è un modo di parlare del metodo mitico. Il metodo mitico è una tecnica narrativaa modernista che consiste nel mettere insieme elementi che non distanti tra loro, sia a livello spaziale che temporale. Si parla, qui, di Roma, ma anche di Napoli. Una delle metafore del metodo mitico è di passeggiare per Via dei Tribunali, farsi trasportare da fascinazioni di epoche diverse, vivere in una dimensione “multi-temporale”. Questo per me è il segno-Napoli. Ho cercato di mantenere questo. E poi c’è un’altra cosa affascinante: la coesistenza dei registri alto-basso.

CA: Questo, ad esempio, nel tuo romanzo si coglie molto.

Mi chiedevo anche se questi continui cambiamenti tra una città e un’altra avessero influito in qualche modo.

AZ: L’influsso più forte, a livello linguistico, è proprio il fatto che molte lingue straniere mi siano diventate familiari. Ciò ha operato a livelli molto profondi, tant’è che nel romanzo ci sono molti forestierismi e un utilizzo costante delle lingue morte. Questo contribuisce a creare delle relazioni di base più fluide, e questa fluidità porta a sfondare l’orizzonte semantico della storia, in direzione di una chiusa che non sia classica.

CA: Io ho trovato il romanzo molto cinematografico. A che tipo di cinema ti ispiri?

AZ: Ci sono due film di Sorrentino che io ho adorato, uno è Il Divo: è una delle opere che mi hanno ispirato di più, soprattutto all’inizio. Nel Divo c’è una rappresentazione della storia che tende alla deformazione, e non è un film pasoliniano, cosa che gli hanno criticato. È esemplare la scena del bacio tra Riina e Andreotti, perché di questo evento non ci sono prove. Questa scena (in particolare la colonna sonora da “andiamo a scopare in spiaggia”) mi ha fatto pensare che è possibile deformare la storia, pur restandone aderente. Puoi fare riferimenti nuovi, ma anche familiari, giocare con delle figure note a tutti, ma deformandole.

ARDV: Per raccontare la politica bisogna necessariamente ricorrere alla deformazione, perché ci sono molti punti oscuri, è tutto un “dietro le quinte”. Deformando, tu formi altro.

AZ: Rispetto all’argomento che ha citato Antonio della “deformazione”, un altro lavoro che prendo ad esempio è Todo modo di Sciascia (e il film diretto da Elio Petri), che fa esattamente questo. Però lo fa in modo ancor più essenziale: lui riduce tutte le variabili a una scena, a un luogo e pochi attori estremamente riconoscibili. Però questo vuol dire che si sta facendo un’operazione che va verso l’essenziale, riducendo il campo delle variabili a pochi, forti e riconoscibili. Se parliamo invece di “rappresentazione del grottesco”, altri film che prendo in considerazioni sono – evidentemente – il Salò e le 120 giornate di Sodoma di Pasolini e La grande abbuffata di Ferreri. Sono due film che ti insegnano la grammatica del grottesco.

CA: A proposito del grottesco, tu nel romanzo parli di “estetica dell’atroce”, che credo sia un argomento centrale. Crei quello che chiami un “laboratorio”, e mi chiedo se il grottesco sia un elemento del laboratorio o un altro espediente per farlo emergere.

AZ: Non è un espediente. Penso che, per arrivare a un laboratorio, in cui la voce è tutto, ci sia bisogno di un percorso. Il grottesco, in questo caso, si alimenta di armi come la semantizzazione, la riduzione di nomi ad attributi, perché essenzializza tutto e rende le forze – e il conflitto – più riconoscibili. È un veicolo, perché tende a sgretolare.

Allo stesso tempo, a rendere possibile il laboratorio è il fatto che le voci si ricongiungano: uno dei veicoli per arrivare a questo punto era fare in modo che prima i temi, poi le stesse espressioni e frasi circolassero da una parte all’altra. In qualche modo, la voce in prima si appropria della visione del potere e della forza che detengono gli altri, quelli “sporchi e cattivi” nella storia. E allo stesso tempo, quelli “sporchi e cattivi” cominciano a farsi dei problemi spirituali..

ARDV: La chiave qui può darla il Marchese de Sade. Il grottesco di Alfredo non è qualcosa di comico, non porta un’estasi positiva, ma è alla Sade. Sade non è realismo pornografico, ma è un realismo portato all’estremo. Ogni figura, ogni personaggio è descritto nell’eccesso; nella realtà è inimmaginabile. Questo è il grottesco di Sade, e diviene politico, un linguaggio che esprime il potere: ciò è molto presente nel primo asse del romanzo, quello riferito alla societas.

CA: Io all’inizio ero convinta che questa esagerazione fosse anche una metafora della politica e della cultura italiana, anche se poi continuando nella lettura ho abbandonato questa ipotesi.

AZ: Volendolo prendere alla larga, la cultura – non solo politica – italiana, ha anticipato molte tendenze, siamo stati (e siamo) un laboratorio: un campo aperto, in cui può succedere di tutto.

CA: A proposito di ciò che ci è familiare, credo che un’altra questione importante da affrontare sia comprendere come appropriarsi, o attingere, all’intensità dell’esperienza personale senza fare finzione autobiografica.

AZ: Per me la scrittura nasce con la poesia, sono arrivato alla narrativa per un presupposto imprescindibile: l’io lirico è morto. Però restava l’idea di come attingere all’esperienza personale senza dover dire “io”. Qui la lettura di Bolaño è stata fondamentale. Anzitutto lui adopera una serie di trucchi, primo tra tutti l’utilizzo di un alter-ego con un acronimo quasi letterale; poi utilizza tutta la sua esperienza e cultura letteraria, il tutto leggermente deformato. Il risultato è che nelle opere di Bolaño, come ad esempio nei Detective selvaggi, la sua autobiografia e la trama si intrecciano in chiave mitica. Lui trova un punto di fuga per fare entrambe le cose, il che vuol dire comunque restare aderenti all’intensità delle cose che uno ha vissuto, dei conflitti che uno ha vissuto.

CA: Quindi, seppur celato, il dato autobiografico è imprescindibile in letteratura.

AZ: Sì, ne sono convinto assolutamente.

CA: Mi incuriosiva sapere, considerando la struttura del romanzo, quanto sia stato importante per te passare dalla poesia, poi al racconto e infine al romanzo.

AZ: Negli ultimi anni ho studiato il racconto in modo molto più serrato. La tendenza alla forma breve c’è sempre stata, e di fatto le strutture intime dei capitoli del libro in qualche modo rispettano alcune delle leggi fondamentali del racconto. Il romanzo si chiude anche con un’Appendice, che è un racconto. Esiste per me una forte tensione al racconto, ma qualcosa è cambiato: adesso, rispetto al momento in cui ho cominciato a scrivere il romanzo, penso che romanzo e racconto siano due cose diverse. Mi capita anche di scrivere di temi diversi, quando scrivo nelle forme brevi. Ciò mi viene da una lunga riflessione, alla cui base c’è l’esperienza di Cortazar: quando comincia a scrivere il suo grande romanzo Il gioco del mondo (Rayuela), lui era già uno scrittore di racconti molto noto, aveva già scritto capolavori, e si interrogava sulla necessità di non scrivere più nelle forme chiuse e perfette, ma di ridiscendere giù nel calderone magmatico, dove ancora tutto è possibile. Facendo questo, delineava una differenza sostanziale tra lo scrivere forme breve e forme estese, è come se lui stesso dicesse: il romanzo ideale è una forma aperta, e non può avere fine. Credo che Rayuela sia uno degli esempi migliori di forma aperta. Una cosa è raggiungere lo sconfinamento in una forma breve, altra cosa è farlo in un romanzo. In un romanzo, lo sconfinamento deve diventare l’oggetto stesso di ciò che stai raccontando.

AR: Ciò che avviene nei romanzi di Kafka, per esempio.

AZ: Per me, l’esempio paradigmatico è L’uomo senza qualità di Musil. È un romanzo che non solo è inconcluso, ma è un romanzo in cui la conclusione evenemenziale non conta più. È questo il vero sconfinamento. Ma c’è di più: questo romanzo, oltre a non aver conclusione, è anche un romanzo di pensiero. Non che la storia scompaia, ma che la chiusa della trama non sia più l’oggetto principale. Questa è la grande eredità del modernismo, non solo in letteratura.

CA: Che rapporto hai con la musica?

AZ: Bella domanda. Io ho un rapporto molto intenso con la musica. Quando – a sedici, diciassette anni – ho capito che con la musica non riuscivo a dire quello che volevo, ho abbandonato lo studio e ho visto nella scrittura lo sfogo naturale di quello che volevo fare. Però, sin da quando la scrittura è diventata qualcosa di molto più sistematico – sono quattro o cinque anni che scrivo tutti i giorni di mattina – ho quasi smesso di ascoltare e suonare musica. Nel momento in cui ho pubblicato il romanzo, e ho messo da parte per un po’ la scrittura, ho ripreso ad ascoltare musica ossessivamente.

CA: Tu pensi esista un metodo di scrittura? Considerando che hai parlato del tuo modo sistematico di scrivere.

AZ: Per tanto tempo uno dei motivi di frustrazione è stato proprio il mio non riuscire a trovare continuità. Quando ho abbandonato l’idea romantica di scrivere di notte e ho cominciato a scrivere la mattina tutto è cambiato. Anche solo rileggersi, tornare sui tuoi appunti, ma mettersi ogni mattina a scrivere è fondamentale. L’esercizio, come nello sport, è fondamentale. Le sessioni di scrittura sono sessioni in cui devo sentire di poter dominare tutte le variabili esterne e posso improvvisare. Soprattutto se stai scrivendo un romanzo, la quantità di variabili da tenere a mente è molto ampia. C’è bisogno di sentirsi in continuità con ciò che scrivi, di dominare le variabili con quotidianità, altrimenti non puoi scrivere più nulla, perché perdi il contatto su ciò che stai scrivendo. La grande difficoltà è però continuare a produrre scritti che vogliano parlare, dire qualcosa. Più professionalizzi la scrittura più diventa difficile avere qualcosa da dire.

L’esercizio costante ti permette di auto-stimolarti, ma quando ti viene l’idea che sai essere diversa da tutte le altre, lì c’è una sorta di “pervasione musicale”, per dirlo con Schiller. A quel punto, quest’idea va custodita, va lasciata crescere. Il problema della scrittura a comando, invece, è opposto: bisogna essere bravi ad auto-stimolarsi, a giocare sulle regole che già conosci per creare qualcosa che parli.

ARDV: Però cosa ti mette in condizione di mantenere la scintilla per farti creare qualcosa che “parli”?

AZ: La letteratura non serve a cambiare il mondo, ma serve a creare degli slittamenti. C’è un elemento di lotta nella letteratura. È questo elemento agonistico che mi dà la scintilla. Forse c’è qualcosa della cultura dello sport, che ho praticato, che mi è rimasta: l’ideasacra dell’agone, del dare tutto sé stesso in ciò che  fai, altrimenti non hai rispetto né per te né per gli altri. È qualcosa che riguarda soprattutto l’auto-motivazione.

CA: Se la letteratura non serve a cambiare il mondo, cosa può dire la letteratura sul mondo?

AZ: La letteratura può dire delle cose, senza dover essere necessariamente “esatta”. Una delle cose che secondo me il romanzo dice è che l’idea che il misurante sia anche il misurato. Un linguaggio ti permette di dire delle cose sul mondo esterno, ma allo stesso tempo tara tutto ciò che dice sulle sue stesse possibilità espressive.

Grazie a Clelia Attanasio per questa intervista e ai suoi ospiti Alfredo Zucchi e Antonio Russo De Vivo! 

 

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