nota e intervista a cura di Emanuela Cocco
“Una mappa, solo una mappa. Una mappa per rimettere tutto a posto.”
Siamo in Sicilia, sull’isola di Ortigia, alla metà degli anni ottanta. È un venerdì ed è il giorno in cui Elena disegna la sua prima mappa. Elena ha quindici anni, ha appena disegnato su un foglio una griglia, di quelle che si usano per giocare a battaglia navale, e annota in modo scrupoloso le misure della stanza e la posizione degli oggetti al suo interno: il letto matrimoniale, i due comodini ai lati, le alte pile di libri che vi sono stati sistemati sopra. Elena annota tutto perché vuole mantenere il controllo, vuole rendere stabile una presenza che lei avverte essere intermittente, sempre sul punto di svanire, qualcuno che lei vuole tenere “salda alla casa”: sua madre. Proprio nella camera da letto di questa donna, una camera che sembra la cabina di una nave, come una grande finestra che affaccia sul mare e una più piccola, a forma di oblò, inizia il nostro viaggio alla volta del “Le isole di Norman”, il romanzo di esordio di Veronica Galletta, edito da Gaffi-Italosvevo nella collana “Incursioni” diretta da Dario De Cristofaro, romanzo vincitore del Premio Campiello Opera Prima. L’isola, quella di Ortigia, e le isole che poi scopriremo essere il nome che Elena, la protagonista del romanzo, dà alle cicatrici che ricoprono il suo corpo dal giorno in cui, da bambina, è rimasta ustionata in seguito a un incidente domestico. Nel romanzo queste ferite sono la traccia indelebile di un evento che ha segnato per sempre il corpo ma anche la vita intima della sua famiglia, che a partire da quell’evento inizierà a disgregarsi. Isole come “impronta di memoria” per usare le parole di Emily Dickinson, una cartografia del proprio vissuto che viene stravolta in modo indelebile quando, cinque anni dopo, la madre di Elena decide, senza un apparente motivo, di abbandonare la nave e scompare nel nulla. Ecco allora che questa avventura di mappatura, prima un gioco segreto, confinato all’interno delle mura domestiche, si riversa all’esterno coinvolgendo l’intera isola, che diventa il teatro d’azione di una caccia al tesoro in cui Elena dissemina indizi e segue le impronte di una fantasma intimo e familiare, per provare a interpretare il suo passato e di disegnare una nuova configurazione degli eventi, qualcosa che sia possibile chiamare futuro.
Dialogo con Veronica Galletta
E.C. A un certo punto la madre della protagonista scompare. Questo innesco narrativo apre la via a un originale peregrinaggio in cui Elena ripercorre l’isola di Ortigia come spazio fisico ma soprattutto come territorio della memoria. Il romanzo è composto da tante tappe che raccontano luoghi che forse ora non esistono più. O che non sono mai esistiti, un’isola che in parte è stata ricreata dai tuoi ricordi e che ora non è più possibile scoprire così come tu la racconti, filtrata dal tempo, mescolata al ricordo, unita a un’altra isola che è pura creazione, un paesaggio emotivo e piscologico che è uno dei punti di forza del tuo romanzo. Ti va di portarci a visitare alcuni dei luoghi di questa storia? Cosa è cambiato, cosa è rimasto intatto e cosa non è mai esistito? Uno te lo suggerisco io, è quella che chiami “La spiaggia dei gatti”, gli altri li lascio scegliere a te.
V.G. La spiaggia dei gatti è una spiaggia popolata, all’interno del romanzo, da una colonia di gatti neri che vivono là sotto, in balia delle onde, prigionieri del mare. La spiaggia infatti si trova sotto ad alti bastioni, ed è un luogo che esiste veramente a Ortigia, dove i turisti vanno a fare il bagno incantati. Eppure un tempo quella stessa spiaggia non era così, non c’era la scala che permette ai bagnanti di scendere, e quindi la scala che avrebbe permesso ai gatti di risalire, e salvarsi dalla furia dell’uomo. Quindi poi quando ho avuto desiderio di ricrearla, un po’ come un memento mori (ricordiamoci da che picchi di ferocia proveniamo), l’ho creata partendo dai colori, delle pennellate rosse e nere, a innestarsi all’interno di un paesaggio descritto tutto sui toni freddi del grigio e dell’azzurro. Questo mi permetteva anche, di introdurre elementi di disturbo, come flash, che facessero da richiamo all’altra parte della storia, che invece è molto rossa, di colori definiti, quasi pantone.
Quello che scelgo io è invece nel capitolo H1, L’isola dei cani. Si riferisce a un punto preciso del Lungomare di Levante di Ortigia, che ho identificato così perché davanti c’è appunto uno scoglio detto l’isola dei cani. In quel punto Ortigia fa come una punta, si protende verso il mare. Un mare che quando è agitato diventa di un blu che vira al nero, come se si approfondisse, si trasformasse in un mare aperto. Quel punto gli abitanti lo chiamano anche Faccia disperata (in dialetto, ma non ve lo traslittero), perché era il punto in cui le donne aspettavano gli uomini di ritorno dalla pesca, nelle giornate di burrasca, e i loro volti diventavano appunto disperati. Io questa pericolosità del mare, del paesaggio quindi anche fuori dalla cartolina, ho deciso di renderlo con un personaggio, una donna che la protagonista Elena incontra proprio in quel punto, e che si rivolge al mare pensando alle sue personali cattive notizie.
Per il resto, nel romanzo ci sono luoghi che esistono e luoghi che non esistono, luoghi che esistono ma in un punto diverso, in una scelta che voleva essere di straniamento. Ci sono luoghi che ho ricreato così a fondo, che adesso quando ci passo vivo io uno straniamento, a trovarli diversi dal mio romanzo.
E.C. Quando hai presentato il tuo romanzo nel gruppo di lettori di Book Advisor, poco prima di salutare, hai detto che per te il paesaggio è qualcosa che non è uno sfondo alla nostra vita ma una delle cose che la influenza maggiormente. Nel tuo romanzo il paesaggio è, a tutti gli effetti, uno dei personaggi della storia, forse, mi azzardo a dire, una sorta di antagonista interno per la protagonista, perché agisce su di lei con una forza che potrebbe portarla a uno scacco esistenziale. Mi piacerebbe approfondire la tua definizione di paesaggio, anche calandola in questa particolare storia in cui il paesaggio ha una potenza ineludibile, e una voce unica.
V.G. A questa domanda voglio risponderti all’impronta, così come mi viene, perché potrei prenderla da così tanti punti diversi che poi finisce che mi imballo, e non voglio: voglio che passi così come mi passa dentro. Allora ti dico questo. Mentre scrivo ascolto sempre musica. In genere su Spotify, a volte mi guardo qualcosa su YouTube. Ecco, proprio adesso mentre leggevo la tua domanda mi scorre davanti un video degli Zen Circus, L’anima non conta. Conosco la canzone e i luoghi in cui è ambientato, eppure mentre guardo e leggo le tue domande, di colpo mi fermo. C’è un posto che non avevo mai notato dentro al video, che riconosco. È l’argine destro dello scolmatore dell’Arno, subito a valle del ponte dell’Aurelia. Ci sono stata anche io, alcuni anni fa, a camminare e guardarmi attorno, senza nessun apparente motivo. È un posto lercio, dove il fiume ha il colore pastoso di certi sversamenti industriali. Eppure ha una luce particolare, un’apertura verso il mare, una prospettiva, che io attendo ogni volta che passo su quel ponte, fino a che un giorno non ho finito per andarci sopra a piedi, a camminarci proprio, fra spazzatura e fango portato dal fiume. Quindi non so esattamente quale sia la mia definizione di paesaggio, so che io il paesaggio in qualche modo lo voglio proprio possedere fisicamente, e siccome è oggettivamente impossibile, ci torno e ci ritorno, ossessivamente, con la scrittura.
E.C. A un certo punto del romanzo viene fuori il rischio che è dentro la tentazione di rivivere il passato e di tornare indietro, di ripercorrerlo camminando sulle sue orme. Questo rischio è la disillusione, e anche, mi pare, uno stupore dai tratti spaventevoli. Nel romanzo tu rievochi un paesaggio che spesso sembra dissolversi davanti alla protagonista, una costruzione inconoscibile, contraddittoria, destinato a generare domande che le quali non esistono che una moltitudine di soluzioni possibili, sempre parziali e inattendibili. So, perché ne abbiamo parlato, che il tema del passato e della memoria inattendibile è uno dei tuoi temi di elezione e che proprio questo romanzo è stata l’occasione per esplorarlo attraverso la letteratura. Ci racconti questo percorso?
V.G. Sono partita sicuramente da questo rovello. La memoria, i ricordi. Come i ricordi siano alla fine solamente personali, e non possano essere condivisi. Come, quindi, non possa esistere una memoria veramente condivisa, dei ricordi assoluti, immodificabili. Vengo da una famiglia molto numerosa e molto dispersa, colpita da avvenimenti improvvisi e traumatici, scomparse, silenzi, allontanamenti e avvicinamenti ma sempre di piccoli gruppi. Una famiglia in cui non esiste una tradizione unica, una liturgia condivisa, e che quindi ha mi viene da dire inevitabilmente una memoria frammentata della sua storia, carica di versioni contrastanti. Non è un caso, ora che ci penso, che io abbia questo tipo di ossessione. Ho ascoltato decine di storie che mutavano, raccontate da uno o dall’altro protagonista, in cui carnefice e vittima si scambiavano i ruoli, e ho raccolto le versioni in divenire, mentre montavano, quando deviavano. Così anche io, quando si è trattato di raccontare la storia di una bambina che si ustiona e non riesce a ricordare come, ho preso la storia e l’ho scomposta, spezzettandola, frammentandola, rifrangendola a seconda di chi la guardava e dell’istante in cui la guardava. Diciamo che quello che ho concluso, scrivendo questo romanzo, perché alla fine mi sono accorta di scrivere sempre per concludere qualcosa (attraverso la manipolazione degli oggetti mi verrebbe da dire, dove per oggetti ci sta un po’ tutto, luoghi avvenimenti, personaggi), quello che ho concluso, dicevo, è che la memoria non esiste. E questo pensiero, invece di farmi star male, mi ha in qualche modo pacificato.
E.C. Come abbiamo detto, questa è una storia di scomparse ma anche una storia di visioni interrotte. Luoghi e persone si manifestano sulla pagina per poi dileguarsi di colpo, oppure conquistare la scena per poi sparire senza che la loro comparsa porti a una chiusura della linea del racconto o a un elemento risolutivo nell’interpretazione della vicenda narrata. “Le isole di Norman” è un romanzo pieno di ricostruzioni ambigue di eventi, dialoghi, ricordi, abitato da presenze sfuggenti. Quella che tu racconti è anche, a mio avviso, una storia di fantasmi, intesa come storia di apparizioni sulle quali non abbiamo mai le idee completamente chiare. Esistono o non esistono? Quanto di quello che Elena vede e crede di riconoscere nei luoghi e nei volti che incontra appartiene al dominio del reale e quanto a quello della fantasia o del desiderio fantasmatico? La tua scrittura si muove in modo sofisticato nella dimensione del non detto, alimentando una via sotterranea del racconto che lo investe di un carattere misterioso, a tratti gotico. Ti riconosci in questa lettura? E come sei arrivata a questo sottile registro stilistico?
V.G. È una lettura in cui mi riconosco, ed è una lettura con la quale sto cercando di fare i conti, studiandone i movimenti per capirla a fondo e riuscire a farla emergere in quello che scrivo. Perché è un piano, mi sono resa conto nel tempo, scrivendo e scrivendo, che è sempre presente. Ci sono delle radici profonde e private dietro una cosa del genere, ho capito, e quello che resta in superficie, quello che emerge anche come colpo di coda inconsapevole, è questo: un mondo narrativo popolato da presenze, non saprei come dirlo diversamente senza derive fumose o trascendenti che non mi appartengono. Un mondo narrativo popolato di presenze, delle quali anche io mi accorgo a posteriori, e cerco di decodificare, per portarle su un piano di maggiore consapevolezza. Quindi, per rispondere alla tua domanda, su come io sia arrivata a questo sottile registro stilistico, la risposta è non lo so. Mi viene naturale, il mio lavoro con la scrittura è proprio questo. Prima muovermi inseguendo un rovello (un’ossessione, un’urgenza, chiamiamola come ci pare), e poi decodificare e organizzare.
E.C. Mi piacerebbe ora parlare con te di un aspetto importante nella scrittura di un romanzo, cioè il lavoro sul testo che viene fatto insieme all’editor. Il tuo romanzo è stato scelto da Dario de Cristofaro, che dirige la collana “Incursioni” e insieme a lui avete iniziato un percorso che poi ha portato il romanzo in libreria. Ce lo racconti?
V.G. Ecco, con questa domanda alla fine ci attacchiamo alla precedente, perché per il lavoro di decodificazione e organizzazione del testo di cui ti dicevo sopra, non posso pensarlo senza un editor. Qualcuno di altro, che mi permetta di specchiarmi e riconoscermi meglio. Come sai, Le isole di Norman ha avuto un tempo lungo di stasi, prima della pubblicazione. Quando l’ho ripreso in mano, a gennaio di quest’anno, erano quasi cinque anni che non lo rileggevo. L’ho fatto con molta paura, con il terrore di trovarlo ingenuo, banale, lontano da me. Il primo compito che mi ha dato l’editor, Dario De Cristofaro, è stato proprio questo. Rileggerlo e rimetterci mano, da sola, senza nessun consiglio di nessuno, e così ho fatto, in una decina di giorni a ritmi forsennati (quando comincio una cosa del genere entro in una specie di trance, ci sto dietro giorno e notte). Ho studiato la struttura, i capitoli, mi sono fatta degli appunti, ho deciso in autonomia di accorpare un paio di capitoli, eliminare un personaggio, sfrondare in alcune parti. Poi abbiamo cominciato a lavorare insieme, capitolo dopo capitolo, andando avanti e tornando indietro. Per me è stato un lavoro molto interessante, come di avvicinamento. Come se lui si fosse messo a una certa distanza da me, e io per raggiungerlo, per arrivare a lui con le mie parole, dovessi districarle, srotolarle verso di lui. Così ho riscritto le parti che mi ha chiesto, pensando a questo: a sporgermi verso di lui con il testo. È stato un lavoro importante per me, che sono comunque una persona chiusa, e mentre lo facevo affinavo lo sguardo.
Le isole di Norman è un testo pieno di simboli, rimandi, di non detti, che avevano bisogno di essere evidenziati o eliminati del tutto. Lucidare gli oggetti, io la chiamo questa cosa, e mi viene in mente una cosa che facevo da piccola. Mia madre mi preparava un batuffolo di cotone imbevuto nel latte e mi metteva a pulire le foglie alle sue piante. Mi diceva quale, mi diceva come (lascia stare la kenzia, attenta con la dieffenbachia) e io mi mettevo là, piano piano, una foglia dopo l’altra. Ecco, una cosa del genere. De Cristofaro mi preparava i batuffoli, mi indicava dove, e io lucidavo gli oggetti.
E.C. Prima abbiamo detto che il tuo romanzo è un romanzo popolato dai fantasmi ma penso sia anche un romanzo che racconta la costruzione di una identità, il modo in cui ci si costruisce come persona. In un saggio intitolato “Della Persona” Paul Ricoeur, il filosofo francese che possiamo definire un maestro dell’ermeneutica filosofica del Novecento, elabora un discorso davvero interessante rispetto un approccio narrativo alla questione dell’identità personale. Banalizzando molto il suo pensiero lui affermava che il senso di chi si è è dato dalla nostra capacità di raccontare una storia coerente su noi stessi e che l’identità personale non somiglia a un oggetto ma a una storia. Cosa ne pensi?
V.G. Sì, non so molto cosa dire su una cosa così. Di certo, in due parole e molto peggio di come lo possa dire lui, io scrivo per capire cosa penso, e scrivendo di certo mi racconto parti della mia vita, le reinvento e le riorganizzo, in un lavoro che non ha nulla a che fare con l’autobiografia, non nel senso classico. Una volta ho sentito dire a Rodrigo Fresán, scrittore argentino una frase tipo: l’autobiografia è la storia del mio stile. Non so se sia sua, non credo sia letterale il mio ricordo, però sì. Scrivo e capisco cosa penso, mi racconto una storia credibile su me stessa, definisco la mia identità, attraverso quello che è (spero) il mio stile.
E.C. Il tuo è un romanzo pieno di libri. Ne cito uno solo, “La montagna incantata” di Thomas Mann, che fa capolino dalle prima pagine, posizionato sul letto della madre di Elena, e colgo l’occasione per chiederti di dirci qualcosa a proposito di modelli letterari e libri che ti hanno formata o dai quali non puoi separarti.
V.G. Ecco, questa è domanda che mi mette in crisi, perché davvero, non lo so. Sicuramente mi piacciono i romanzi di avventura, quelli in cui accadono le cose, certi romanzi per ragazzi, e quindi non è un caso che il libro ruoti attorno a quello che per me è stato il mio romanzo d’avventura per eccellenza, e quindi L’isola del Tesoro di Stevenson. Per il resto, è tutto molto vago, ognuno trova cose che accadono in libri differenti. Qualcuno su Le isole di Norman dice che è un libro statico, qualcun altro che è un vortice, da cui non ti stacchi. E allora mi viene in mente di quando qualche anno fa ho presentato Funetta, con il suo esordio Dalle rovine. Qualcuno dal pubblico gli chiese quali erano i suoi romanzi d’evasione, e lui rispose che lui si divertiva con i libri di Moresco e Michele Mari. La cosa mi fece sorridere, perché la trovai vera. Anche io, cerco l’avventura dentro testi che per altri lettori sono solo noia, e viceversa. È il bello dei libri, e di chi li legge.
“Le isole di Norman” di Veronica Galletta
ItaloSvevo, 2020
Collana Incursioni
brossura, 304 pagine
Veronica Galletta
credit Upho Studio Fotografia
È nata a Siracusa nel 1971 e vive a Livorno
da alcuni anni. Di formazione ingegnere, ha scritto racconti pubblicati su diverse riviste letterarie, tra cui «Abbiamo le prove», «Colla», «L’inquieto» e «Flanerí».Il suo primo romanzo, Le isole di Norman, già finalista della XXVIII edizione del Premio Calvino, pubblicato nella primavera del 2020 per i tipi di Italosvevo, è stato premiato con il Premio Campiello Opera Prima nel 2020.
Emanuela Cocco
Ha scritto per il teatro e per la tv. È redattrice della rivista di drammaturgia contemporanea Perlascena. Suoi racconti e contributi critici sono stati ospitati su alcune riviste, tra queste: Achab, Script, Lo Spazio Bianco, Verde, L’irrequieto, CrapulaClub, Donne Difettose, Malgrado le mosche, Horror, Flanerì, Zest. Con il racconto Mappa ha partecipato alla raccolta “Le parole sono importanti”, Dots Edizioni, 2018. Con il racconto Demiurnare ha partecipato alla raccolta “Vocabolario minimo delle parole inventate”, a cura di Luca Marinelli (Wojtek, 2019). Collabora come docente alla Scuola Macondo – l’Officina delle Storie. Tu che eri ogni ragazza (Wojtek 2018) è il suo primo romanzo.